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martedì 16 gennaio 2024

*La Pietà (da Teofrasto al Rinascimento, da Michelangelo a Pasolini).

Con il termine “pietà” si intende solitamente, nella storia dell’arte, un motivo figurativo rappresentante la Vergine e altri vari personaggi, che si apprestano alla deposizione, o tengono in braccio il Cristo morto.

Il concetto che in italiano esprimiamo con il termine "pietà" (religiosa) e dall'aggettivo "pio", come in "persona pia" o "religiosa", deriva dal latino “pietas” e traduce il greco “eusebeia”. La pietà rende una persona "uomo di Dio", o "amico di Dio", così come doveva essere fin dall'inizio, vale a dire di colui o colei che "ad immagine e somiglianza di Dio", "cammina con Lui". E proprio questa centralità Uomo -Dio, che caratterizzò tutto l’Umanesimo e il Rinascimento Italiano.

La pietà è una virtù che siamo chiamati a coltivare ed esercitarvisi ed è quindi fondamentalmente una pratica ("la pratica della pietà") che si apprende e che comporta precise implicazioni nel nostro rapporto con gli altri (una condotta santa e pia caratterizzata da purezza di spirito).

La “Pietà” è uno di quei sentimenti pieni di compassione, tensione emotiva, umanità che hanno espresso il dolore e la commozione dell’animo umano. E’ uno dei temi iconografici più diffusi, trattato da innumerevoli artisti nel corso dei secoli. Ma qual è l’origine di questa iconografia? Dove troviamo la genesi della Pietà come oggi intendiamo questa rappresentazione, in cui si sono cimentati i più grandi autori e che trovò nel Rinascimento la sua massima espressione?

La pietà si colloca a pieno diritto nel dibattito degli umanisti tra il concetto di “dignità” di Pico della Mirandola e quello di Amore del neoplatonico Marsilio Ficino, senza dimenticare lo studio di Cicerone che si manifestò nel Rinascimento. A tale proposito ricordiamo una citazione del grande Cicerone: “ Ed e bene che siano consacrate la Ragione, la Pietà, la Virtu, la Fede; a tutte queste sono dedicati in Roma dei templi in maniera siffatto che, tutti quelli che le posseggono – e le posseggono tutti quanti i buoni – pensino di avere nel loro animo gli dei stessi.”

Ma la prima traccia filosofica di questo concetto la troviamo nell’antica Grecia, in uno degli allievi di Aristotele e cioè TEOFRASTO. In Italia ce ne ha dato ampia e bellissima trattazione Gino Ditadi nel suo libro TEOFRASTO: DELLA PIETA’ (Isonomia, Padova, 2005), dobbiamo ritenere che il testo circolasse nel Rinascimento negli ambienti Neoplatonici e di massima attenzione tra gli Umanisti per la sua centralità sulle capacità dell’UOMO. Teofrasto nel suo libro Della Pietà auspicava il rispetto del mondo animale e vegetale: Secondo Teofrasto esiste una parentela che accomuna uomini ed animali. Tutti, infatti, hanno per padre il cielo, per madre la terra e il sangue del medesimo colore:

«Tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa razza, perché i principi dei loro corpi sono per natura gli stessi (parlando così non mi riferisco ai primi elementi dai quali provengono le piante, ma penso alla pelle, alle carni, a quel genere di umori inerenti agli animali), e ancor più perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni […].”

Solo nel 700 si giunge ad un’estensione, contiguità e interdipendenza, del concetto di pietà con quello più moderno di Umanità (Humanitas). Ecco come Kant si esprime nella Metafisica dei costumi:

“Congratulazione e compassione (sympathia moralis) sono sentimenti sensibili di piacere o dispiacere (che dunque sono da chiamare «estetici») per lo stato di benessere o dolore degli altri (sentimento comune, sensazione partecipativa), per i quali già la natura ha posto negli uomini la recettività. Tuttavia, il far uso di questi come di mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale costituisce un dovere ulteriore (benché solo condizionato), che va sotto il nome di umanità (humanitas), poiché qui l’uomo viene considerato non puramente come essere razionale, ma anche come animale dotato di ragione. Questa può essere posta solo nella facoltà e volontà di essere partecipi gli uni degli altri in rapporto ai propri sentimenti (humanitas practica), oppure puramente nella recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore (humanitas aesthetica), che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque chiamata partecipativa (communio sentiendi liberalis); la seconda non è libera (communio sentiendi illiberalis, servilis) e può chiamarsi comunicativa (come il calore o le malattie infettive), o anche passione comune, giacché essa si diffonde naturalmente tra uomini che vivono gli uni accanto agli altri. Solo nei confronti della prima esiste un dovere (A 129-130).”

Comunque associata alla religione e alla fede divenne patrimonio della Cristianità nei secoli e quindi grande strumento di divulgazione religiosa anche nell’Arte promossa dai Papi e dal mondo ecclesiastico.

Nel Trecento, Giotto a Padova, nella cappella degli Scrovegni dipinse il suo affresco, “Compianto sul Cristo morto”. considerato una delle opere fondamentali dell’arte moderna, segna il netto distacco dalla bidimensionalità dell’arte bizantina, con i soggetti religiosi privi di espressività, con le forme appiattite e stilizzate. Giotto rivoluziona la pittura, esaltando l’intensità del dolore, dando volume ai corpi e il senso della prospettiva, cercando di imitare la realtà.

Nel Rinascimento gli Artisti che sono stati i maggiori interpreti di questo tema sono stati: Cosmé Turà, Perugino, Giovanni Bellini, Sebastiano del Piombo, Raffaello, Mantegna, Michelangelo,  Caravaggio.

La Pietà è un dipinto tempera su tavola di Cosmè Tura, databile al 1460 circa e conservato nel Museo Correr di Venezia che evidenzia la sofferenza del corpo di Cristo. L'opera è ricca di simbologie e significati, tra questi, il più curioso si trova sulla sinistra dello spettatore: nell'angolo, vicino a una rovinosa caduta di colore, si scorge una scimmietta sulla cima di un albero che sta a ricordare la natura inferiore dell'uomo rispetto a quella divina. Stilisticamente quindi si colloca pienamente in linea con la pittura ferrarese di fine Quattrocento, tra le influenze nordiche e l'interpretazione delle novità portate da Mantegna nella vicina Padova. Poi c’è il polittico di Roverella dove predomina la scenografia della deposizione e la tensione drammatica della composizione.

La Pietà del Perugino (Perugino, Pietà, 1493-1494, olio su tavola, 168 x 176 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi) riprende un modello iconografico figurativo del nord Europa che sarà poi superata da Michelangelo con la sua Pietà. La Vergine è seduta con una posizione verticale e rigida mentre il corpo di Gesù è collocato orizzontalmente sulle sue gambe. A sinistra, Giovanni evangelista sostiene la parte superiore del corpo di Cristo mentre a destra Maria Maddalena regge i piedi. Sui lati dell’immagine si trovano un giovane santo con le mani giunte e raccolte verso il petto e un santo più anziano.

La Pietà del Perugino riprende il modello tedesco definito Vesperbild. Secondo questa tradizione iconografica, il corpo di Cristo giace rigido tra le braccia di Maria. La Madre è seduta con il busto teso e verticale mentre il Gesù morto è disposto in orizzontale. Questo modello troverà una moderna alternativa con la Pietà di Michelangelo. Il termine tedesco Vesperbild si può tradurre in italiano come immagine del Vespro. Tale modello di scultura devozionale nacque nel XIV secolo in Germania.

L’ardito scorcio prospettico è il punto di forza del Cristo morto del Mantegna. L’artista studia la composizione del dipinto con un intento emotivo: far soffrire l’osservatore, che si ritrova trascinato al centro del dramma, proprio di fronte al Cristo disteso sulla pietra dell’unzione. Il taglio fotografico, il forte contrasto di luci, il tratto incisivo delle linee, tutto per evidenziare i dettagli più impressionanti, come i buchi lasciati dai chiodi nei piedi in primo piano e nelle mani.

Nel dipinto della Pietà, realizzato da Sebastiano del Piombo intorno al 1516, non esiste contatto fisico tra Maria e Gesù. La Madonna prega rivolta al cielo, con il figlio disteso ai suoi piedi in uno scenario tenebroso che è stato riconosciuto come una zona periferica di Viterbo.

Come Michelangelo, Tiziano raffigura sé stesso nella Pietà destinata alla sua sepoltura: egli è il vecchio prostrato dinanzi alla Vergine, tradizionalmente identificato in Nicodemo o Giuseppe d'Arimatea. La tecnica pittorica è quella tipica delle sue ultime opere ed è caratterizzata da colori cupi stesi con pennellate ricche e veloci, vibranti di luce.

Giovanni Bellini:

Il lirismo struggente di Giovanni Bellini è rivelato da tre opere sul tema della Pietà due a Milano, una a Brera e l’altra al Museo Poldi Pezzoli. Entrambe colpiscono per l’eleganza della figura di Cristo, un’atmosfera quasi metafisica. Non compaiono elementi prospettici accentuati (come invece nel Cristo scurto di suo cognato Mantegna), né la presenza corporea del corpo di Cristo Michelangiolesco. La terza a Venezia c/o il Museo Correr.

 

                     




A Giovanni Bellini il destino e la bravura regaleranno due allievi dell’importanza di Giorgione e Tiziano (come i più grandi artisti fiorentini passeranno per la bottega di Verrocchio) a cui darà e dai quali prenderà ispirazione. Bellini è un disegnatore straordinario: è la perfetta definizione dei personaggi e di ogni minuto particolare a dettare i connotati dell’opera. Del resto, a Venezia i fiamminghi erano ben noti (e collezionati) e Giovanni Bellini guarda anche a loro.

Ma fra tutte le Pietà dipinte dal Bellini nel “Cristo morto sorretto da quattro angeli”, una tempera e olio su tavola dipinta intorno agli anni ’70 del 1400 e oggi conservata al Museo della Città di Rimini è quella che più ci colpisce. Qui avviene il “quasi attuato rinnovamento” come scrive Roberto Longhi, che continua “Ecco tutto il quadro occupato di alterne tonalità coloristiche chiare e scure: ecco i corpi divenuti di una sostanza più viva e respirante, come zuccherina, dove l’ombra si deposita morvidissima; ecco il modellato arrotondarsi come nelle testine angeliche (…) ecco i corpi soffondersi d’ambra e le vesti formarsi di rosa”. 

La dolorosa armonia e la delicatezza angelica di Bellini fanno pensare più a influenze di Antonello da Messina che non di Mantegna.

 

Nella Deposizione realizzata da Caravaggio, (Pinacoteca Vaticana), la scena è affollata e la luce, quasi divina, colpisce direttamente il corpo di Cristo. Nicodemo, che ha il volto di Michelangelo, gli sostiene i piedi ed è l’unico personaggio che rivolge lo sguardo verso chi osserva. Il viso di Gesù è un autoritratto del Caravaggio. Il “braccio della morte” è una citazione della prima Pietà di Michelangelo. Maria è distante dal Cristo e appare invecchiata.

LA PIETA’ IN MICHELANGELO: Il Genio di Michelangelo lo portò ad esprimersi come nessuno prima e dopo di lui sul tema della Pietà a più riprese ed a tutte le età sino alla morte, e divenne nell’artista non solo oggetto d’investigazione iconografica- religiosa, ma divenne una vera ossessione assoluta sia in campo etico, che estetico e umano. Se ne conosco 4 versioni (tre certe e una dubbia).

-La Pietà Vaticana: Michelangelo affronta per la prima volta l’immagine della Pietà durante il suo primo viaggio a Roma, su commissione del cardinale francese Jean de Bilhères. Il giovane Michelangelo, era all’epoca ventitreenne, concepisce l’opera con un impianto piramidale dove a trionfare sono oltre la bellezza e l’armonia, la centralità della giovane figura Mariana, donna e madre simbolo d’amore e purezza assoluta.

“Sia noto et manifesto a chi legerà la presente scripta, come el reverendissimo cardinal di San Dionisio si è convenuto con mastro Michelangelo statuario fiorentino, che lo dicto maestro debia far una Pietà di marmo a sue spese, ciò è una Vergene Maria vestita, con Christo morto in braccio, grande quanto sia vno homo iusto, per prezo di ducati quattrocento cinquanta d’oro in oro papali, in termino di uno anno dal dì della principiata opera.” Roma, 27 agosto 1498. Questo il contratto che diede inizio a uno dei capolavori dell’Arte d’ogni tempo.

Il volto estremamente giovanile della Madonna gli attirò critiche crudeli, alle quali l’artista rispose sostenendo che la santità preserva l’eleganza e la giovinezza(esaltata da un panneggio marmoreo strabiliante)  e che il suo intento non era quello di rappresentare il momento della morte di Cristo, ma il significato più spirituale e profondo che vi si celava dietro. Il risultato è che Michelangelo riesce a rendere eterno un momento, carico di intensa umanità.

-La pietà di Palestrina:

Una Pietà ritrovata nella chiesa di Santa Rosalia a Palestrina è tra le opere più discusse di Michelangelo. Lo stesso Vasari la riteneva opera di un suo allievo ma alcuni disegni di Michelangelo, tra i quali uno per Vittoria Colonna, sua amica e confidente nonché signora di Palestrina, mostrano che l’artista stava lavorando su un’idea dall’impianto molto simile.

Malgrado in molti l’abbiano attribuita a Michelangelo (Caprese, 1475 - Roma, 1564), le fonti coeve tacciono al riguardo. Non esistono documenti dell’epoca di Michelangelo che la citino, e nessuno dei suoi biografi ne parla: di fatto, se fosse davvero un’opera del grande artista toscano, sarebbe l’unica Pietà di cui nessuno dei suoi contemporanei abbia mai scritto qualcosa.

L’opera si trova in uno stato di abbozzo, il che fa pensare proprio alla tecnica di Michelangelo. Il lato posteriore è completamente liscio (l’opera era da addossarsi a una parete, posizione in cui in effetti si trovava nella chiesa prenestina), ma alcune forature e i rimasugli di certi motivi decorativi lascerebbero supporre che il pezzo di marmo da cui fu ricavata la scultura fosse anticamente un elemento inserito in un complesso più ampio: segno che lo scultore che realizzò la Pietà non lavorò su un marmo che arrivava direttamente da una cava, bensì su quello che con ogni probabilità era il frammento di un architrave appartenente a un’architettura antica.

Lo studioso francese Albert Grenier fu tra i primi entusiasti fautori dell’opera come di mano Michelangiolesca: sottolineando la “violenza del sentire dell’artista”, la “cura tormentata per i dettagli”, il “sentimento profondo dell’insieme”, e anche le sproporzioni, come quelle fortissime tra il torace e le gambe di Cristo, che per Grenier sono volute. A favore dell’attribuzione si schierarono anche Piero Toesca e Adolfo Venturi. Tra coloro che inflissero un duro colpo all’attribuzione vi furono Rudolf Wittkower, che pensò al lavoro di un allievo e Charles de Tolnay (che, peraltro, diresse la Casa Buonarroti dal 1965 al 1981), il quale scrisse che l’opera altro non era se non “una mescolanza di motivi di diverse opere di Michelangiolo”, e nello specifico che “il cadavere del Cristo e la Vergine sono copie della prima versione della Pietà Rondanini”, che “la Santa Maddalena è una copia (all’inverso) della Maddalena della Pietà del Duomo”, e che “l’esecuzione, debolissima nei particolari, è probabilmente da attribuirsi a un allievo di Michelangiolo”.

Certo è che l’opera esprime benissimo e sintetizza il mondo poetico Michelangiolesco e la sua tecnica e da forse ragione a Giovanni Papini che scrisse: “ …E così l'opera che sembrava trinità del dolore è invece trilogia di umano e divino conforto. “

-La pietà Bandini:

Ben diversa dalla giovanile e rifinita Pietà Vaticana è la cosiddetta Pietà Bandini, iniziata in tarda età e costruita come un gruppo serrato di figure che comprende la Maddalena e Nicodemo che sorregge la Vergine e il corpo di Cristo.

è una delle ultime opere di Michelangelo Buonarroti, che la realizzò tra il 1547 e il 1555 circa, lasciandola interrotta. La targa con inscrizione, di maestranze fiorentine, ricorda il trasferimento dell’opera dalla Basilica di San Lorenzo in Duomo.

Ideata da Michelangelo come monumento per la propria sepoltura, l’opera appartenne per un certo tempo alla famiglia Bandini, in Roma, finché venne acquistata dal granduca Cosimo III de’ Medici nel 1671. Dapprima collocata in San Lorenzo, nel 1722 fu spostata in Duomo, sul retro dell’altar maggiore, per poi essere sistemata nel 1933 nella cappella di Sant’Andrea. Dal 1981 si trova nel Museo dell’Opera.

Più urgente e immediata si è fatta la volontà di fondere il Figlio di Dio con la Madonna, tant’è che i due volti si toccano, mentre il corpo divino è diventato carne in disfacimento, materia tragica accentuata dallo stato di non finito dell’opera.

Michelangelo stesso, dopo aver preso in considerazione l’idea di farla porre sulla sua tomba, l’aveva presa a martellate ed abbandonata in una delle sue crisi depressive. Fu rifinita da Tiberio Calcagni, per mediazione di Francesco Bandini ma non giungerà mai ad essere posta sul sepolcro dell’artista come auspicava già il Vasari.

Michelangelo, ormai settantenne, ha raffigurato il proprio autoritratto, come per identificarsi in Nicodemo, nella sua cura amorevole del corpo di Gesù, mentre lo deposita, accompagnandolo nel sepolcro. Il tema della morte, della sepoltura, della speranza cristiana della risurrezione, si fondono in una compassione corale e assoluta. Nel suo volto c’è tutto lo strazio, l’amore e la pietà umana e divina di Michelangelo.

La Pietà Rondanini:

L’ultima delle Pietà michelangiolesche è anche l’ultima opera a cui l’artista mise mano. Rimasta anch’essa incompleta, fu rielaborata da Michelangelo più volte, fino a giungere alla soluzione di unire il corpo di Cristo a quello della Vergine, scolpendolo nella parte di marmo inizialmente occupata dal solo corpo di Maria.

Le due figure così lievemente abbozzate evocano una fusione che, prima dei corpi, è una fusione di anime. L’iniziale ricerca di perfezione anatomica è del tutto scomparsa, mentre la consistenza fisica delle figure ha lasciato il posto ad un’immagine spiritualizzata.

Nessun altro artista al pari di Michelangelo ha saputo trasmettere il valore straordinario del non-finito, potendolo contrapporre al massimo grado di perfezione raggiunto in alcune opere da lui scolpite in gioventù, quali il Bacco, la Pietà vaticana o il David. Figure bloccate nel marmo come da una sorta di incantesimo, ma il cui respiro pare non essersi mai arrestato all’interno della materia. Un non-finito, naturalmente, che non vuol significare una momentanea o conclusiva interruzione, ma una scelta poetica e materica di contrasto tra il levigato e la materia grezza come espediente per far risaltare ancor più sia la valenza spirituale della materia che dell’agire scultoreo.

Il non-finito-consapevole in arte, però, è una condizione assai diversa, interiore che esalta la tensione creativa e le capacità tecniche dell’artista che trae dalla materia grezza perle estetiche. Michelangelo, intuì immediatamente come la scultura, più di qualsiasi altra espressione artistica, abbia connaturata in sé la capacità di restituire visivamente una così intensa tensione emotiva, senza alterarne la forza poetica e drammatica. Infatti egli, che pure fu pittore, architetto e poeta, sempre si considerò essenzialmente scultore. Intendendo la scultura come l’arte del togliere, dello svelare, ciò che la materia già di per sé contiene. Iniziata nel 1552 Michelangelo vi lavorerà sino al 1564, quasi novantenne (era nato il 6 marzo 1475), sino agli ultimi giorni di vita. Colpisce l’intensità di questo dialogo ininterrotto con la morte, l’assoluto e la materia.

La scultura venne trovata nel suo studio, dopo la sua morte, e dall’inventario risulta così descritta: «Statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite». A conclusione delle sue Vite, il Vasari scriverà di questa e di tutte le opere di Michelangelo, che la loro fama durerà fino a quando durerà il mondo, «mal grado della invidia et al dispetto della morte».



 

L’opera in levare di Michelangelo si percepisce a pieno confrontando il panneggio elegante e sontuoso della Madonna nell’opera Vaticana e l’essenzialità assoluta e commovente nel nudo del corpo di Cristo della pietà Rondanini e l’assenza assoluta di panneggi e decori nella pietà Rondanini.

 

La pietà in Pier Paolo Pasolini:

La pietà è uno dei temi dominanti (insieme alla Realtà) della poesia di Pasolini. Il suo era un ateismo religioso (La religione del mio tempo; L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Le ceneri di Gramsci). Pasolini affronta il tema della Pietà di CRISTO-UOMO, nel film Il Vangelo secondo Matteo in maniera esemplare. E basterebbe ricordare la poesia dedicata al Papa in cui gli rimprovera non di non fare il male, ma di non fare il bene, accusandolo d’essere un grande peccatore, ma preferiamo ricordare quest’altra poesia: LA CROCIFISSIONE.

“…Il poeta indifeso e nudo come un “fanciullo” si rivolge al suo Dio creatore per confessarsi e chiedergli perdono. Ecco il richiamo e l’analogia con la passione di Cristo, l’Annunciazione. La sua onestà intellettuale e il suo amore per la verità storica che saranno due stelle comete di tutta la sua attività di uomo, poeta, critico, scrittore e regista.

Si nota subito l’incipit di ogni parte del suo poemetto La Passione e oggetto della sua preghiera e riflessione  è CRISTO, come corpo morto(e viene in mente la deposizione del Mantegna), Cristo androgino, come giovinetta, Cristo in supplizio, Cristo ferito, Cristo soave fanciullo,  in cui il poeta s’identifica e soffre.

Ricordiamo che nel 1964 dedica alla figura di Cristo il suo capolavoro cinematografico Il Vangelo secondo Matteo. Pasolini non ama la chiesa ma adora la figura simbolica e storica di Cristo umile e rivoluzionario. Il suo laicismo poetico, lo porta scrivere un poemetto “La Crocefissione” che crediamo centrale del libro:

*LA CROCIFISSIONE

Ma noi predichiamo Cristo crocifisso:

scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili

Paolo, Lettera ai Corinti

Tutte le piaghe sono al sole

ed Egli muore sotto gli occhi

di tutti: perfino la madre

sotto il petto, il ventre, i ginocchi,

guarda il Suo corpo patire.

L’alba e il vespro Gli fanno luce

sulle braccia aperte e l’Aprile

intenerisce il Suo esibire

la morte a sguardi che Lo bruciano.

 

Perché Cristo fu ESPOSTO in Croce?

Oh scossa del cuore al nudo

corpo del giovinetto…atroce

offesa al suo pudore crudo…

Il sole e gli sguardi! La voce

estrema chiese a Dio perdono

con un singhiozzo di vergogna

rossa nel cielo senza suono,

tra pupille fresche e annoiate

di Lui: morte, sesso e gogna.

 

 

Bisogna esporsi (questo insegna

il povero Cristo inchiodato?),

la chiarezza del cuore è degna

di ogni scherno, di ogni peccato

di ogni più nuda passione

(questo vuol dire il Crocifisso?

sacrificare ogni giorno il dono

rinunciare ogni giorno al perdono

sporgersi ingenui sull’abisso.)

 

Noi staremo offerti sulla croce,

alla gogna, tra le pupille

limpide di gioia feroce,

scoprendo all’ironia le stille

del sangue dal petto ai ginocchi,

miti, ridicoli, tremando

d’intelletto e passione nel gioco

del cuore arso dal suo fuoco,

per testimoniare lo scandalo.

*tratto da L’Usignolo della chiesa cattolica, Gli Struzzi, Einaudi, 1982, pagg. 85-86.

Qui il poeta esprime tutta la sua Pietas Cristiana e umana, e l’identificazione con il Cristo umano e terreno, crocifisso senza colpe, umiliato nel corpo, deriso negli insegnamenti e ne trae l’insegnamento che bisogna esporsi e accettare il rischio della crocifissione, testimoniarne lo scandalo.” (dal libro di Donato Di Poce: P.P.Pasolini, L’ossimoro vivente, I Quaderni del Bardo Edizioni, Lecce, 2021)

E infine vogliamo ricordare un’opera di street art, di Ernest Pignon-Ernest (che ne aveva fatta un’altra a Certaldo) a Roma, dedicata alla figura di Pier Paolo Pasolini, solo l’ultima di una nutrita serie, che annovera, tra gli autori più noti, Mr. Klevra, Omino 71, Maupal, Zilda, David Vecchiato, Nicola Verlato.

Un poster incollato al muro, per il ritratto di un Pasolini doppio, vivo e morente, colto nell’atto dell’ultima (auto)contemplazione. Strana e potente pietà laica, in cui il poeta tiene fra le braccia il proprio cadavere: una luttuosa premonizione, con quell’idea di morte così presente, sempre, nella sua scrittura, o viceversa un’ostinata affermazione di disperata vitalità, esibendo egli stesso l’immagine del delitto e del dolore. In quest’opera riemergono il tema della morte e prepotentemente quello della pietà attraverso il suo doppio, che diventa anima del mondo morente sola speranza di redenzione per l’essere umano.

***

*Dal libro di Donato Di Poce, “RINASCIMENTO: La danza delle idee, I Quaderni del Bardo, Lecce, 2022.

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