Con il termine “pietà” si intende solitamente, nella storia dell’arte, un motivo figurativo rappresentante la Vergine e altri vari personaggi, che si apprestano alla deposizione, o tengono in braccio il Cristo morto.
Il concetto che in italiano
esprimiamo con il termine "pietà" (religiosa) e dall'aggettivo
"pio", come in "persona pia" o "religiosa",
deriva dal latino “pietas” e traduce il greco “eusebeia”. La
pietà rende una persona "uomo di Dio", o "amico di Dio",
così come doveva essere fin dall'inizio, vale a dire di colui o colei che "ad
immagine e somiglianza di Dio", "cammina con Lui". E proprio
questa centralità Uomo -Dio, che caratterizzò tutto l’Umanesimo e il
Rinascimento Italiano.
La pietà è una virtù che siamo
chiamati a coltivare ed esercitarvisi ed è quindi fondamentalmente una pratica
("la pratica della pietà") che si apprende e che comporta precise
implicazioni nel nostro rapporto con gli altri (una condotta santa e pia
caratterizzata da purezza di spirito).
La “Pietà” è uno di quei
sentimenti pieni di compassione, tensione emotiva, umanità che hanno espresso
il dolore e la commozione dell’animo umano. E’ uno dei temi iconografici più
diffusi, trattato da innumerevoli artisti nel corso dei secoli. Ma qual è l’origine
di questa iconografia? Dove troviamo la genesi della Pietà come oggi intendiamo
questa rappresentazione, in cui si sono cimentati i più grandi autori e che
trovò nel Rinascimento la sua massima espressione?
La pietà si colloca a pieno
diritto nel dibattito degli umanisti tra il concetto di “dignità” di Pico
della Mirandola e quello di Amore del neoplatonico Marsilio
Ficino, senza dimenticare lo studio di Cicerone che si manifestò nel
Rinascimento. A tale proposito ricordiamo una citazione del grande Cicerone:
“ Ed e bene che siano consacrate la Ragione, la Pietà, la Virtu, la
Fede; a tutte queste sono dedicati in Roma dei templi in maniera siffatto che,
tutti quelli che le posseggono – e le posseggono tutti quanti i buoni – pensino
di avere nel loro animo gli dei stessi.”
Ma la prima traccia filosofica
di questo concetto la troviamo nell’antica Grecia, in uno degli allievi di
Aristotele e cioè TEOFRASTO. In Italia ce ne ha dato ampia e bellissima
trattazione Gino Ditadi nel suo libro TEOFRASTO: DELLA PIETA’ (Isonomia,
Padova, 2005), dobbiamo ritenere che il testo circolasse nel Rinascimento negli
ambienti Neoplatonici e di massima attenzione tra gli Umanisti per la sua
centralità sulle capacità dell’UOMO. Teofrasto nel suo libro Della Pietà
auspicava il rispetto del mondo animale e vegetale: Secondo Teofrasto esiste
una parentela che accomuna uomini ed animali. Tutti, infatti, hanno per padre
il cielo, per madre la terra e il sangue del medesimo colore:
«Tutti gli uomini, ma anche
tutti gli animali sono della stessa razza, perché i principi dei loro corpi
sono per natura gli stessi (parlando così non mi riferisco ai primi elementi
dai quali provengono le piante, ma penso alla pelle, alle carni, a quel genere
di umori inerenti agli animali), e ancor più perché l’anima che è in loro non è
diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai
ragionamenti e soprattutto alle sensazioni […].”
Solo nel 700 si giunge ad un’estensione, contiguità e
interdipendenza, del concetto di pietà con quello più moderno di Umanità
(Humanitas). Ecco come Kant si esprime nella Metafisica dei costumi:
“Congratulazione e compassione
(sympathia moralis) sono sentimenti sensibili di piacere o dispiacere (che
dunque sono da chiamare «estetici») per lo stato di benessere o dolore degli
altri (sentimento comune, sensazione partecipativa), per i quali già la natura
ha posto negli uomini la recettività. Tuttavia, il far uso di questi come di
mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale costituisce un
dovere ulteriore (benché solo condizionato), che va sotto il nome di umanità
(humanitas), poiché qui l’uomo viene considerato non puramente come essere
razionale, ma anche come animale dotato di ragione. Questa può essere posta
solo nella facoltà e volontà di essere partecipi gli uni degli altri in
rapporto ai propri sentimenti (humanitas practica), oppure puramente nella
recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore (humanitas
aesthetica), che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque
chiamata partecipativa (communio sentiendi liberalis); la seconda non è libera
(communio sentiendi illiberalis, servilis) e può chiamarsi comunicativa (come
il calore o le malattie infettive), o anche passione comune, giacché essa si
diffonde naturalmente tra uomini che vivono gli uni accanto agli altri. Solo
nei confronti della prima esiste un dovere (A 129-130).”
Comunque associata alla
religione e alla fede divenne patrimonio della Cristianità nei secoli e quindi
grande strumento di divulgazione religiosa anche nell’Arte promossa dai Papi e
dal mondo ecclesiastico.
Nel Trecento, Giotto a Padova,
nella cappella degli Scrovegni dipinse il suo affresco, “Compianto sul
Cristo morto”. considerato una delle opere fondamentali dell’arte moderna,
segna il netto distacco dalla bidimensionalità dell’arte bizantina, con i
soggetti religiosi privi di espressività, con le forme appiattite e stilizzate.
Giotto rivoluziona la pittura, esaltando l’intensità del dolore, dando volume
ai corpi e il senso della prospettiva, cercando di imitare la realtà.
Nel Rinascimento gli
Artisti che sono stati i maggiori interpreti di questo tema sono stati: Cosmé
Turà, Perugino, Giovanni Bellini, Sebastiano del Piombo, Raffaello, Mantegna,
Michelangelo, Caravaggio.
La Pietà è un dipinto tempera su
tavola di Cosmè Tura, databile al 1460 circa e conservato nel Museo
Correr di Venezia che evidenzia la sofferenza del corpo di Cristo. L'opera è
ricca di simbologie e significati, tra questi, il più curioso si trova sulla
sinistra dello spettatore: nell'angolo, vicino a una rovinosa caduta di colore,
si scorge una scimmietta sulla cima di un albero che sta a ricordare la natura
inferiore dell'uomo rispetto a quella divina. Stilisticamente quindi si colloca
pienamente in linea con la pittura ferrarese di fine Quattrocento, tra le
influenze nordiche e l'interpretazione delle novità portate da Mantegna nella
vicina Padova. Poi c’è il polittico di Roverella dove predomina la scenografia
della deposizione e la tensione drammatica della composizione.
La Pietà del Perugino
(Perugino, Pietà, 1493-1494, olio su tavola, 168 x 176 cm. Firenze, Galleria
degli Uffizi) riprende un modello iconografico figurativo del nord Europa che
sarà poi superata da Michelangelo con la sua Pietà. La Vergine è seduta con una
posizione verticale e rigida mentre il corpo di Gesù è collocato
orizzontalmente sulle sue gambe. A sinistra, Giovanni evangelista sostiene la
parte superiore del corpo di Cristo mentre a destra Maria Maddalena regge i
piedi. Sui lati dell’immagine si trovano un giovane santo con le mani giunte e
raccolte verso il petto e un santo più anziano.
La Pietà del Perugino riprende
il modello tedesco definito Vesperbild. Secondo questa tradizione
iconografica, il corpo di Cristo giace rigido tra le braccia di Maria. La Madre
è seduta con il busto teso e verticale mentre il Gesù morto è disposto in
orizzontale. Questo modello troverà una moderna alternativa con la Pietà di
Michelangelo. Il termine tedesco Vesperbild si può tradurre in italiano come
immagine del Vespro. Tale modello di scultura devozionale nacque nel XIV
secolo in Germania.
L’ardito scorcio prospettico è
il punto di forza del Cristo morto del Mantegna.
L’artista studia la composizione del dipinto con un intento emotivo: far
soffrire l’osservatore, che si ritrova trascinato al centro del dramma, proprio
di fronte al Cristo disteso sulla pietra dell’unzione. Il taglio fotografico,
il forte contrasto di luci, il tratto incisivo delle linee, tutto per
evidenziare i dettagli più impressionanti, come i buchi lasciati dai chiodi nei
piedi in primo piano e nelle mani.
Nel dipinto della Pietà,
realizzato da Sebastiano del Piombo intorno al 1516, non esiste
contatto fisico tra Maria e Gesù. La Madonna prega rivolta al cielo, con il
figlio disteso ai suoi piedi in uno scenario tenebroso che è stato riconosciuto
come una zona periferica di Viterbo.
Come Michelangelo, Tiziano
raffigura sé stesso nella Pietà destinata alla sua sepoltura: egli è il vecchio
prostrato dinanzi alla Vergine, tradizionalmente identificato in Nicodemo o
Giuseppe d'Arimatea. La tecnica pittorica è quella tipica delle sue ultime
opere ed è caratterizzata da colori cupi stesi con pennellate ricche e veloci,
vibranti di luce.
Giovanni Bellini:
Il lirismo struggente di
Giovanni Bellini è rivelato da tre opere sul tema della Pietà due a Milano, una
a Brera e l’altra al Museo Poldi Pezzoli. Entrambe colpiscono per l’eleganza
della figura di Cristo, un’atmosfera quasi metafisica. Non compaiono elementi
prospettici accentuati (come invece nel Cristo scurto di suo cognato Mantegna),
né la presenza corporea del corpo di Cristo Michelangiolesco. La terza a
Venezia c/o il Museo Correr.
A Giovanni Bellini il destino e la bravura regaleranno due
allievi dell’importanza di Giorgione e Tiziano (come i più grandi artisti
fiorentini passeranno per la bottega di Verrocchio) a cui darà e dai quali
prenderà ispirazione. Bellini è un disegnatore straordinario: è la perfetta
definizione dei personaggi e di ogni minuto particolare a dettare i connotati
dell’opera. Del resto, a Venezia i fiamminghi erano ben noti (e collezionati) e
Giovanni Bellini guarda anche a loro.
Ma fra tutte le Pietà dipinte
dal Bellini nel “Cristo morto sorretto da quattro angeli”, una tempera e
olio su tavola dipinta intorno agli anni ’70 del 1400 e oggi conservata al
Museo della Città di Rimini è quella che più ci colpisce. Qui avviene il “quasi
attuato rinnovamento” come scrive Roberto Longhi, che continua “Ecco
tutto il quadro occupato di alterne tonalità coloristiche chiare e scure: ecco
i corpi divenuti di una sostanza più viva e respirante, come zuccherina, dove
l’ombra si deposita morvidissima; ecco il modellato arrotondarsi come nelle
testine angeliche (…) ecco i corpi soffondersi d’ambra e le vesti formarsi di
rosa”.
La dolorosa armonia e la
delicatezza angelica di Bellini fanno pensare più a influenze di Antonello da
Messina che non di Mantegna.
Nella Deposizione realizzata
da Caravaggio, (Pinacoteca Vaticana), la scena è affollata e la luce, quasi
divina, colpisce direttamente il corpo di Cristo. Nicodemo, che ha il volto di
Michelangelo, gli sostiene i piedi ed è l’unico personaggio che rivolge lo
sguardo verso chi osserva. Il viso di Gesù è un autoritratto del Caravaggio. Il
“braccio della morte” è una citazione della prima Pietà di Michelangelo. Maria
è distante dal Cristo e appare invecchiata.
LA PIETA’ IN MICHELANGELO: Il
Genio di Michelangelo lo portò ad esprimersi come nessuno prima e dopo di lui
sul tema della Pietà a più riprese ed a tutte le età sino alla morte, e divenne
nell’artista non solo oggetto d’investigazione iconografica- religiosa, ma
divenne una vera ossessione assoluta sia in campo etico, che estetico e umano.
Se ne conosco 4 versioni (tre certe e una dubbia).
-La
Pietà Vaticana: Michelangelo affronta per la prima volta
l’immagine della Pietà durante il suo primo viaggio a Roma, su commissione del
cardinale francese Jean de Bilhères. Il giovane Michelangelo, era all’epoca
ventitreenne, concepisce l’opera con un impianto piramidale dove a trionfare
sono oltre la bellezza e l’armonia, la centralità della giovane figura Mariana,
donna e madre simbolo d’amore e purezza assoluta.
“Sia
noto et manifesto a chi legerà la presente scripta, come el reverendissimo
cardinal di San Dionisio si è convenuto con mastro Michelangelo statuario
fiorentino, che lo dicto maestro debia far una Pietà di marmo a sue spese, ciò
è una Vergene Maria vestita, con Christo morto in braccio, grande quanto sia
vno homo iusto, per prezo di ducati quattrocento cinquanta d’oro in oro papali,
in termino di uno anno dal dì della principiata opera.” Roma,
27 agosto 1498. Questo il contratto che diede inizio a uno dei capolavori
dell’Arte d’ogni tempo.
Il volto
estremamente giovanile della Madonna gli attirò critiche crudeli, alle quali
l’artista rispose sostenendo che la santità preserva l’eleganza e la
giovinezza(esaltata da un panneggio marmoreo strabiliante) e che il suo intento non era quello di
rappresentare il momento della morte di Cristo, ma il significato più
spirituale e profondo che vi si celava dietro. Il risultato è che Michelangelo
riesce a rendere eterno un momento, carico di intensa umanità.
-La pietà di Palestrina:
Una
Pietà ritrovata nella chiesa di Santa Rosalia a Palestrina è tra le opere più
discusse di Michelangelo. Lo stesso Vasari la riteneva opera di un suo allievo
ma alcuni disegni di Michelangelo, tra i quali uno per Vittoria Colonna, sua
amica e confidente nonché signora di Palestrina, mostrano che l’artista stava
lavorando su un’idea dall’impianto molto simile.
Malgrado
in molti l’abbiano attribuita a Michelangelo (Caprese, 1475 - Roma, 1564), le
fonti coeve tacciono al riguardo. Non esistono documenti dell’epoca di
Michelangelo che la citino, e nessuno dei suoi biografi ne parla: di fatto, se
fosse davvero un’opera del grande artista toscano, sarebbe l’unica Pietà di cui
nessuno dei suoi contemporanei abbia mai scritto qualcosa.
L’opera
si trova in uno stato di abbozzo, il che fa pensare proprio alla tecnica di
Michelangelo. Il lato posteriore è completamente liscio (l’opera era da
addossarsi a una parete, posizione in cui in effetti si trovava nella chiesa
prenestina), ma alcune forature e i rimasugli di certi motivi decorativi
lascerebbero supporre che il pezzo di marmo da cui fu ricavata la scultura
fosse anticamente un elemento inserito in un complesso più ampio: segno che lo
scultore che realizzò la Pietà non lavorò su un marmo che arrivava direttamente
da una cava, bensì su quello che con ogni probabilità era il frammento di un
architrave appartenente a un’architettura antica.
Lo
studioso francese Albert Grenier fu tra i primi entusiasti fautori dell’opera
come di mano Michelangiolesca: sottolineando la “violenza del sentire
dell’artista”, la “cura tormentata per i dettagli”, il “sentimento profondo
dell’insieme”, e anche le sproporzioni, come quelle fortissime tra il
torace e le gambe di Cristo, che per Grenier sono volute. A favore
dell’attribuzione si schierarono anche Piero Toesca e Adolfo Venturi. Tra
coloro che inflissero un duro colpo all’attribuzione vi furono Rudolf
Wittkower, che pensò al lavoro di un allievo e Charles de Tolnay (che,
peraltro, diresse la Casa Buonarroti dal 1965 al 1981), il quale scrisse che
l’opera altro non era se non “una mescolanza di motivi di diverse opere di
Michelangiolo”, e nello specifico che “il cadavere del Cristo e la Vergine sono
copie della prima versione della Pietà Rondanini”, che “la Santa Maddalena è
una copia (all’inverso) della Maddalena della Pietà del Duomo”, e che
“l’esecuzione, debolissima nei particolari, è probabilmente da attribuirsi a un
allievo di Michelangiolo”.
Certo è
che l’opera esprime benissimo e sintetizza il mondo poetico Michelangiolesco e
la sua tecnica e da forse ragione a Giovanni Papini che scrisse: “ …E così
l'opera che sembrava trinità del dolore è invece trilogia di umano e divino
conforto. “
-La
pietà Bandini:
Ben
diversa dalla giovanile e rifinita Pietà Vaticana è la cosiddetta Pietà
Bandini, iniziata in tarda età e costruita come un gruppo serrato di figure che
comprende la Maddalena e Nicodemo che sorregge la Vergine e il corpo di Cristo.
è una
delle ultime opere di Michelangelo Buonarroti, che la realizzò tra il 1547 e il
1555 circa, lasciandola interrotta. La targa con inscrizione, di maestranze
fiorentine, ricorda il trasferimento dell’opera dalla Basilica di San Lorenzo
in Duomo.
Ideata da Michelangelo come
monumento per la propria sepoltura, l’opera appartenne per un certo tempo alla
famiglia Bandini, in Roma, finché venne acquistata dal granduca Cosimo III de’
Medici nel 1671. Dapprima collocata in San Lorenzo, nel 1722 fu spostata in
Duomo, sul retro dell’altar maggiore, per poi essere sistemata nel 1933 nella
cappella di Sant’Andrea. Dal 1981 si trova nel Museo dell’Opera.
Più
urgente e immediata si è fatta la volontà di fondere il Figlio di Dio con la
Madonna, tant’è che i due volti si toccano, mentre il corpo divino è diventato
carne in disfacimento, materia tragica accentuata dallo stato di non finito
dell’opera.
Michelangelo
stesso, dopo aver preso in considerazione l’idea di farla porre sulla sua
tomba, l’aveva presa a martellate ed abbandonata in una delle sue crisi
depressive. Fu rifinita da Tiberio Calcagni, per mediazione di Francesco
Bandini ma non giungerà mai ad essere posta sul sepolcro dell’artista come
auspicava già il Vasari.
Michelangelo,
ormai settantenne, ha raffigurato il proprio autoritratto, come per
identificarsi in Nicodemo, nella sua cura amorevole del corpo di Gesù, mentre
lo deposita, accompagnandolo nel sepolcro. Il tema della morte, della
sepoltura, della speranza cristiana della risurrezione, si fondono in una
compassione corale e assoluta. Nel suo volto c’è tutto lo strazio, l’amore e la
pietà umana e divina di Michelangelo.
La Pietà Rondanini:
L’ultima
delle Pietà michelangiolesche è anche l’ultima opera a cui l’artista mise mano.
Rimasta anch’essa incompleta, fu rielaborata da Michelangelo più volte, fino a
giungere alla soluzione di unire il corpo di Cristo a quello della Vergine,
scolpendolo nella parte di marmo inizialmente occupata dal solo corpo di Maria.
Le due
figure così lievemente abbozzate evocano una fusione che, prima dei corpi, è
una fusione di anime. L’iniziale ricerca di perfezione anatomica è del tutto
scomparsa, mentre la consistenza fisica delle figure ha lasciato il posto ad
un’immagine spiritualizzata.
Nessun
altro artista al pari di Michelangelo ha saputo trasmettere il valore
straordinario del non-finito, potendolo contrapporre al massimo grado di
perfezione raggiunto in alcune opere da lui scolpite in gioventù, quali il
Bacco, la Pietà vaticana o il David. Figure bloccate nel marmo come da una
sorta di incantesimo, ma il cui respiro pare non essersi mai arrestato
all’interno della materia. Un non-finito, naturalmente, che non vuol
significare una momentanea o conclusiva interruzione, ma una scelta poetica e
materica di contrasto tra il levigato e la materia grezza come espediente per
far risaltare ancor più sia la valenza spirituale della materia che dell’agire
scultoreo.
Il non-finito-consapevole
in arte, però, è una condizione assai diversa, interiore che esalta la tensione
creativa e le capacità tecniche dell’artista che trae dalla materia grezza
perle estetiche. Michelangelo, intuì immediatamente come la scultura, più di
qualsiasi altra espressione artistica, abbia connaturata in sé la capacità di
restituire visivamente una così intensa tensione emotiva, senza alterarne la
forza poetica e drammatica. Infatti egli, che pure fu pittore, architetto e
poeta, sempre si considerò essenzialmente scultore. Intendendo la scultura come
l’arte del togliere, dello svelare, ciò che la materia già di per sé contiene.
Iniziata nel 1552 Michelangelo vi lavorerà sino al 1564, quasi novantenne (era
nato il 6 marzo 1475), sino agli ultimi giorni di vita. Colpisce l’intensità di
questo dialogo ininterrotto con la morte, l’assoluto e la materia.
La
scultura venne trovata nel suo studio, dopo la sua morte, e dall’inventario
risulta così descritta: «Statua principiata per un Cristo et un’altra figura
di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite». A conclusione delle
sue Vite, il Vasari scriverà di questa e di tutte le opere di Michelangelo, che
la loro fama durerà fino a quando durerà il mondo, «mal grado della invidia et
al dispetto della morte».
L’opera in levare di
Michelangelo si percepisce a pieno confrontando il panneggio
elegante e sontuoso della Madonna nell’opera Vaticana e l’essenzialità assoluta
e commovente nel nudo del corpo di Cristo della pietà Rondanini e l’assenza
assoluta di panneggi e decori nella pietà Rondanini.
La pietà in Pier Paolo Pasolini:
La pietà è uno dei temi
dominanti (insieme alla Realtà) della poesia di Pasolini. Il suo era un ateismo
religioso (La religione del mio tempo; L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Le
ceneri di Gramsci). Pasolini affronta il tema della Pietà di CRISTO-UOMO, nel
film Il Vangelo secondo Matteo in maniera esemplare. E basterebbe ricordare la
poesia dedicata al Papa in cui gli rimprovera non di non fare il male, ma di
non fare il bene, accusandolo d’essere un grande peccatore, ma preferiamo
ricordare quest’altra poesia: LA CROCIFISSIONE.
“…Il poeta indifeso e nudo come un “fanciullo” si
rivolge al suo Dio creatore per confessarsi e chiedergli perdono. Ecco il
richiamo e l’analogia con la passione di Cristo, l’Annunciazione. La sua onestà
intellettuale e il suo amore per la verità storica che saranno due stelle
comete di tutta la sua attività di uomo, poeta, critico, scrittore e regista.
Si nota subito l’incipit di ogni parte del suo
poemetto La Passione e oggetto della sua preghiera e riflessione è CRISTO, come corpo morto(e viene in mente
la deposizione del Mantegna), Cristo androgino, come giovinetta, Cristo in
supplizio, Cristo ferito, Cristo soave fanciullo, in cui il poeta s’identifica e soffre.
Ricordiamo che nel 1964 dedica alla figura di
Cristo il suo capolavoro cinematografico Il Vangelo secondo Matteo. Pasolini
non ama la chiesa ma adora la figura simbolica e storica di Cristo umile e
rivoluzionario. Il suo laicismo poetico, lo porta scrivere un poemetto “La
Crocefissione” che crediamo centrale del libro:
*LA CROCIFISSIONE
Ma noi predichiamo Cristo crocifisso:
scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili
Paolo, Lettera ai Corinti
Tutte le piaghe sono al sole
ed Egli muore sotto gli occhi
di tutti: perfino la madre
sotto il petto, il ventre, i ginocchi,
guarda il Suo corpo patire.
L’alba e il vespro Gli fanno luce
sulle braccia aperte e l’Aprile
intenerisce il Suo esibire
la morte a sguardi che Lo bruciano.
Perché Cristo fu ESPOSTO in Croce?
Oh scossa del cuore al nudo
corpo del giovinetto…atroce
offesa al suo pudore crudo…
Il sole e gli sguardi! La voce
estrema chiese a Dio perdono
con un singhiozzo di vergogna
rossa nel cielo senza suono,
tra pupille fresche e annoiate
di Lui: morte, sesso e gogna.
Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda passione
(questo vuol dire il Crocifisso?
sacrificare ogni giorno il dono
rinunciare ogni giorno al perdono
sporgersi ingenui sull’abisso.)
Noi staremo offerti sulla croce,
alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per testimoniare lo scandalo.
*tratto da L’Usignolo della chiesa cattolica, Gli
Struzzi, Einaudi, 1982, pagg. 85-86.
Qui il poeta esprime tutta la
sua Pietas Cristiana e umana, e l’identificazione con il Cristo umano e
terreno, crocifisso senza colpe, umiliato nel corpo, deriso negli insegnamenti
e ne trae l’insegnamento che bisogna esporsi e accettare il rischio della
crocifissione, testimoniarne lo scandalo.” (dal
libro di Donato Di Poce: P.P.Pasolini, L’ossimoro vivente, I Quaderni del Bardo
Edizioni, Lecce, 2021)
E infine vogliamo ricordare
un’opera di street art, di Ernest Pignon-Ernest (che ne aveva fatta
un’altra a Certaldo) a Roma, dedicata alla figura di Pier Paolo Pasolini, solo
l’ultima di una nutrita serie, che annovera, tra gli autori più noti, Mr.
Klevra, Omino 71, Maupal, Zilda, David Vecchiato, Nicola Verlato.
Un poster incollato al muro, per
il ritratto di un Pasolini doppio, vivo e morente, colto nell’atto dell’ultima
(auto)contemplazione. Strana e potente pietà laica, in cui il poeta tiene fra
le braccia il proprio cadavere: una luttuosa premonizione, con quell’idea di
morte così presente, sempre, nella sua scrittura, o viceversa un’ostinata
affermazione di disperata vitalità, esibendo egli stesso l’immagine del delitto
e del dolore. In quest’opera riemergono il tema della morte e prepotentemente
quello della pietà attraverso il suo doppio, che diventa anima del mondo
morente sola speranza di redenzione per l’essere umano.
***
*Dal libro di Donato Di Poce, “RINASCIMENTO: La danza delle
idee, I Quaderni del Bardo, Lecce, 2022.